Che cosa nascondeva e mascherava, allora, l’ideologia del “moderno” (e cosa maschera, di conseguenza, l’ideologia del “postmoderno”)? Per fare un esempio banale, tutti sanno che l’abolizione della schiavitù (ottenuta con la guerra più sanguinosa di tutto l’800) non fu certo dovuta a opinioni umanitarie. Il lavoro salariato era un presupposto necessario del capitalismo “moderno” e il profitto senza salario non poteva essere tollerato. Essere “moderni” equivaleva quindi a creare i presupposti per uno sviluppo incondizionato del capitalismo. Uno dei principali presupposti della rivoluzione francese, a parte quello di liberarsi dei privilegi nobiliari, era la distruzione delle “corporazioni” che impedivano, in Francia, ad un singolo imprenditore di produrre artefatti appena un po’ “complessi”, anche una semplice carrozza.
In questo perseguimento (obbligato, beninteso) del “moderno”, il capitale produceva inevitabilmente anche “progresso” (sviluppo delle tecnologie e delle conoscenze scientifiche, emancipazione, ecc). Lo sviluppo della produzione capitalistica, è stato detto, ha bisogno di una base tecnica “rivoluzionaria”. Lo impone la concorrenza e il necessario abbattimento dei costi di produzione. Ecco l’enorme sviluppo della scienza e della tecnica. Il progresso tecnico e scientifico significa certamente miglioramento generalizzato delle condizioni di vita, ma significa anche la realizzazione di armi più potenti e la derivante “supremazia” sul piano militare. Nella storia delle battaglie e delle guerre si fa in genere poca attenzione all’importanza della tecnica degli armamenti. Sappiamo però che essa cominciò ad assumere un ruolo determinante, almeno sin dalle campagne napoleoniche. Nel secolo scorso, la piena consapevolezza di tale importanza si affermò drammaticamente nel corso della prima guerra mondiale (basti pensare alla sintesi dell’ammoniaca ottenuta dalla ricerca chimica tedesca), per poi continuare a consolidarsi fino agli episodi bellici più recenti (è quasi superfluo citare la bomba atomica, ma basti pensare alla guerra dei sei giorni tra Israele e paesi arabi e infine alla guerra del Golfo). A sua volta, la rincorsa alla supremazia militare, sempre dettata da interessi economici, diventava un altro fattore che imponeva ai potenti di investire parte dei profitti in ricerche scientifiche e tecnologiche.
Nello stesso tempo, sul piano antropologico, il “moderno” è quindi figlio della necessaria emancipazione dalle varie forme di “servitù” e di"casta". Tralasciamo qui i significati più specifici, per esempio quelli legati a movimenti artistici e creativi (altri potranno meglio di me trovare nessi e differenze da questo punto di vista). La “donna moderna” è per esempio una donna che, immettendosi autonomamente nel mercato del lavoro e della professione, si libera da ogni tipo di servitù e subordinazione (il processo è ancora in atto), sul piano familiare, sessuale, ecc.
Un inciso sul termine “modernizzazione”. Questo termine sembra appartenere al vocabolario dei paesi del “socialismo reale”. L’ideologia che esso racchiude è nota a tutti coloro che abbiano prestato la minima attenzione alle recenti vicende cinesi e non mi pare il caso di parlarne oltre.
Infine, il “postmoderno”. Verrebbe da dire: si può essere postmoderni solo con lo stomaco pieno, con un eccesso di prodotti che inducono allo spreco, con la possibilità di avere abbastanza tempo libero da riuscire ad annoiarsi (precisiamo che queste non sono osservazioni moralistiche). La conquista del tempo libero è una conquista progressista. Il postmoderno ha prodotto anche capolavori in campo artistico. Ma il termine si carica di ideologia quando si illude circa un cambiamento a livello strutturale.
Eppure gli scenari cambiano, e le contraddizioni evolvono. Il progresso è oggettivo, anche se non lineare. Si delineano le condizioni per una crescente emancipazione di tutta l’umanità (ivi compresa la crescente “liberazione dal lavoro”, che non si sa perché è scomparsa dagli ideali propri della sinistra), ma questa prospettiva reale non si trasforma ancora in disegno o progetto razionale. L’anarchia tipica del capitalismo lasciail "controllo" ad altri fattori. Qui occorrerebbe una noiosa disquisizione su termini come "razionalità" e "funzionalità". Chi ha seguito la storia dell’architettura e del design in tempi recenti potrebbe produrre esempi eloquenti per chiarire questa sottile distinzione. Esprimendoci per slogan, possiamo solo dire che si può agire in modo funzionale, ma ciò non garantisce che l’impresa effettuata abbia una sua intrinseca razionalità. Il problema è che la funzionalità del progetto si rende immediatamente esplicita all’atto stesso del suo concepimento. Si colloca in un orizzonte dato. Il giudizio razionale può invece andare oltre. Può proporre nuovi scenari, nei quali le regole vigenti, presupposte dalla funzionalità, non sono più rispettate. Cosa qualifica questo tipo di razionalità? Non si può, per cercare una risposta a questa domanda abissale, prescindere da ciò che si chiama, con un temine spesso abusato, "concezione del mondo". che la battaglia politica mostra il suo lato culturale. Ecco che si profilano gli scenari e le scelte che distinguono chi è "di destra" da chi è "di sinistra".
Il capitalismo non può concepire progetti che non siano “funzionali” alla crescita del capitale. Eppure, producendo modernità e progresso, ha creato i presupposti per il superamento di questi limiti. È lo sviluppo stesso del capitale a creare le condizioni per produrre giudizi razionali e critici che vadano oltre il modo d’essere dei rapporti sociali capitalistici. Progetti ben ponderati, basati sull’uso razionale delle risorse e delle conoscenze tecnico-scientifiche possono rendere ancora più evidente la ristrettezza dell’orizzonte capitalistico. Viene in mente un classico slogan che descriveva la nascita della scienza “moderna”: da un mondo chiuso all’universo infinito. Non si tratta di utopia, ma di semplice proiezione nel futuro di usi, divenuti oggi possibili, di risorse materiali e intellettuali (quindi delle conoscenze tecnico-scientifiche) già disponibili. Occorre allora approfondire gli studi su quanto il possesso e l’uso di tali risorse sia razionale, o quanto sia semplicemente “funzionale”.
L’uso dei termini modernità, moderno, modernizzazione, ha sempre avuto una forte connotazione politica e ideologica. L’avvento dell’era “moderna” coincide essenzialmente con l’affermazione dei rapporti sociali di produzione del capitalismo. Il capitalismo non riconosce più alcun limite “sacro”, alcun divieto di principio, alcuna gerarchia trascendente. Deve sbarazzare ilmondo da ogni ostacolo alla diffusione del "libero mercato" e al diritto d’ogni individuo di farsi imprenditore o di “vendere” la propria forza-lavoro.
All’inizio, questa forma d’evoluzione si muoveva all’interno di particolari contesti “nazionali”, ma inevitabilmente la sua realizzazione comportava intrecci internazionali sempre più profondi e costrittivi. La globalizzazione comincia col capitalismo. Le forme in cui si attua - dai semplici rapporti mercantili, alla depredazione e sottomissione violenta, fino al dislocamento della produzione - e i conflitti che produce (guerre che assumono appunto una dimensione globale) variano da fase a fase e da contesto a contesto. Paradossalmente, con una sorta di circolarità contraddittoria, all’internazionalizzazione della produzione, si contrappongono nuove forme di nazionalismo, di difesa ed esaltazione delle particolarità etniche, di tendenza a creare zone d’influenza privilegiata. Ciò fa sì che le forme d’invasione straniera e di interdipendenza tra stati diversi si fanno più subdole e sotterranee. Su questo problema, che annuncia, appunto, crescenti sintomi di contraddizione, c’è ancora molto da studiare. Oggi è tuttavia ben chiaro che il capitale, in quanto insieme concreto di risorse, il “denaro” (diceva Marx), non conosce confini. Lo sappiamo bene per quanto riguarda il cosiddetto “capitale finanziario”, ma lo stiamo vedendo anche per il capitale industriale, in un momento in cui la proprietà di intere imprese produttive passa da un paese all’altro, indipendentemente dalla loro collocazione geografica, e assume sempre di più una dimensione “impersonale” e “transnazionale”. Ovviamente tutto questo era stato già annunciato più di un secolo fa.
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